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Sarri si confessa: “Amo i napoletani, ma non esistono più bandiere. Togliere la tuta? Lo farei per la società”

admin
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Sarri si confessa a Vanity Fair: “Amo i napoletani, ma si fanno scelte professionali. L’importante è dare il 110%, non esistono più bandiere dopo Totti. Tuta? Se la società lo chiede, vesto in altro modo”.

Ha parlato il tecnico del momento, Maurizio Sarri, e lo ha fatto al quotidiano Vanity Fair. L’allenatore del Chelsea, prossimo all’addio, ha rilasciato forti dichiarazioni sul suo anno passato lontano dall’Italia e di futuro, non escludendo le voci di mercato che lo hanno accostato alla Juve: “Per noi italiani il richiamo di casa è forte, senti che manca qualcosa. È stato un anno pesante. Comincio a sentire il peso degli amici lontani, dei genitori anziani che vedo di rado. Ma alla mia età faccio solo scelte professionali. Non potrò allenare 20 anni. È l’anagrafe a dirlo. È roba faticosa, la panchina. Quando torno a casa in Toscana mi sento un estraneo. Negli ultimi anni ci avrò dormito trenta notti”.

Ha parlato dei napoletani, del rapporto con i tifosi azzurri e del futuro possibile in Italia: “I napoletani conoscono l’amore che provo per loro, ho scelto l’estero l’anno scorso per non andare in una squadra italiana. La professione può portare ad altri percorsi, non cambierà il rapporto. Fedeltà è dare il 110% nel momento in cui ci sei. Che vuol dire essere fedele? E se un giorno la società ti manda via? Che fai: resti fedele a una moglie da cui hai divorziato?“. Poi continua, precisando: “L’ultima bandiera è stata Totti, in futuro ne avremo zero“.

Sul ‘Sarrismo’: “E’ un modo di giocare a calcio e basta. Nasce dagli schiaffi presi. L’evoluzione è figlia delle sconfitte. Non solo nel calcio. Io dopo una vittoria non so gioire. Chi vince, resta fermo nelle sue convinzioni. Una sconfitta mi segna dentro più a lungo, mi rende critico, mi sposta un passo avanti. Mio nipote mi fa leggere la pagina Facebook ‘Sarrismo, Gioia e Rivoluzione’. Si divertono, io sono anti-social, non ho nemmeno WhatsApp”.

Poi si espone, sul discorso della tuta: “Se la società per cui lavoro mi imponesse di andar vestito in altro modo, dovrei accettare. A me fanno tenerezza i giovani colleghi del campionato Primavera che portano la cravatta su campi improponibili. Mi fanno tristezza, sinceramente”.

Conclude, su chi lo etichetta come allenatore troppo superstizioso: “Di superstizioni ne ho meno di quelle che mi attribuiscono. Ho smesso di vestire solo di nero. Mi è rimasta l’abitudine di non mettere piede in campo, dentro le linee dico, finché la partita non è finita. Prima o poi abbandonerò pure questa: già in certi stadi le panchine son dalla parte opposta degli spogliatoi e il prato devo calpestarlo per forza. Quando cominci a vincere, le scaramanzie finiscono“.

Fonte: Vanity Fair.

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